“Ogni anno l’8 marzo mi portava la mimosa. Poi sbirciava in cucina, sollevava coperchi, annusava odori e se ne usciva, quando andava bene, con una battuta sarcastica sulle mie doti di cuoca. Altrimenti cambiava espressione e “sempre le stesse cose fai, possibile che tu abbia così poca fantasia!”. Se provavo a rispondere, alzava la voce, imprecava, sbatteva le porte, mi insultava e se ne andava. Poi tornava, come se niente fosse accaduto, come se i bambini non avessero sentito nulla, come se io dovessi sentirmi fortunata solo per il fatto che era tornato.
Ogni anno l’8 marzo mi portava la mimosa. Se per caso ero seduta e leggevo, studiavo, lavoravo, l’espressione da subito si trasformava in un ghigno, un sibilo sinistro quelle parole, sempre le stesse “a che ti servirà tutto questo studio…”. Se osavo controbattere gridava, malediceva me e tutto ciò che mi riguardava, mi offendeva e se ne andava. Poi tornava, come se nulla fosse accaduto, i bambini attoniti, io ancora incredula e incapace di reagire.
Ogni anno l’8 marzo mi portava la mimosa. Poi all’orecchio mi sussurrava “stanotte cosa mi fai?”, l’occhio acquoso di desiderio, i gesti ammiccanti e melliflui. E se non facevo, allora sì che si scatenava la belva. Urla, ingiurie, colpi alla cieca: agli oggetti, ai mobili, a me. Poi se ne andava e dopo un po’, qualche ora o qualche giorno, tornava. Come se fosse tutto normale, senza guardare i bambini impauriti e ormai irrimediabilmente tristi, senza accorgersi che io stavo morendo dentro.
É andata avanti così per anni. Finché un giorno, un giorno qualunque, dopo l’ennesima scenata e l’ennesimo abbandono, quando é tornato la porta di casa era chiusa. Una serratura nuova e una nuova vita. Sulla porta c’erano un mazzo di mimosa, e un biglietto: qui vive una Donna, con la D maiuscola.”